Messaggi in chat WhatsApp fra colleghi, licenziamento illegittimo: Cassazione

Di Enrico Pellegrini:

La Corte di Cassazione, con una recente sentenza della Sezione Lavoro (n.5936/2025) ha ribadito un principio fondamentale nel diritto del lavoro digitale, i messaggi scambiati all’interno di una chat WhatsApp tra colleghi, se inviati in un contesto riservato e a destinatari determinati, non possono giustificare un provvedimento disciplinare di licenziamento. Si tratta di un chiarimento particolarmente rilevante nell’epoca in cui strumenti di messaggistica istantanea vengono utilizzati per comunicazioni lavorative ma anche personali, spesso senza un confine preciso tra sfera professionale e privata.

Il caso oggetto della decisione riguardava un lavoratore licenziato a seguito della diffusione, da parte di un collega, di messaggi vocali contenenti espressioni ritenute offensive nei confronti di un superiore gerarchico. I messaggi erano stati trasmessi tramite WhatsApp all’interno di un gruppo chiuso, composto esclusivamente da altri dipendenti. Pur riconoscendo il contenuto potenzialmente inappropriato, la Suprema Corte ha chiarito che tali comunicazioni rientrano nell’ambito della corrispondenza tutelata dall’art. 15 della Costituzione, che garantisce la libertà e la segretezza delle comunicazioni interpersonali, anche quando queste si realizzano per via digitale.

Secondo quanto affermato dalla Corte, la semplice divulgazione del contenuto da parte di uno dei partecipanti alla chat non fa venir meno la natura privata della conversazione. Tale condotta, anzi, costituisce una lesione del diritto alla riservatezza del mittente e non legittima automaticamente una reazione sanzionatoria da parte del datore di lavoro. Non spetta, infatti, a quest’ultimo erigersi a giudice morale del comportamento del dipendente, se quest’ultimo si è espresso all’interno di un contesto non pubblico e in modo non destinato alla diffusione.

A sostegno di queste conclusioni, la giurisprudenza ha più volte evidenziato che l’utilizzo di chat private tra colleghi, anche laddove emergano contenuti sgradevoli o poco opportuni, non può essere trattato alla stregua di un’espressione pubblica. In tal senso, è stata già riconosciuta l’illegittimità di sanzioni disciplinari irrogate sulla base di messaggi privati – anche vocali – scambiati in contesti digitali riservati, salvo che tali comunicazioni non travalichino i limiti della tutela costituzionale attraverso un’espressa volontà di diffusione.

La Corte ha ulteriormente osservato che l’utilizzo della piattaforma WhatsApp, se limitato a gruppi chiusi e a persone determinate, è assimilabile, dal punto di vista giuridico, all’invio di una lettera in busta chiusa. Si tratta, quindi, di un mezzo tecnologico che soddisfa il requisito di segretezza richiesto per la tutela costituzionale. La posizione della Cassazione si allinea a quanto stabilito dalla Corte europea dei diritti dell’uomo, secondo cui anche le comunicazioni elettroniche e digitali rientrano nella protezione garantita dall’art. 8 della CEDU, laddove siano evidentemente destinate a restare confinate nel perimetro relazionale privato.

Dal punto di vista applicativo, la pronuncia impone ai datori di lavoro un approccio prudente e rispettoso delle garanzie costituzionali. In assenza di una comprovata incidenza negativa sul rapporto fiduciario, e quindi sull’effettivo svolgimento della prestazione lavorativa, il contenuto di una chat privata non può costituire valido presupposto per una sanzione disciplinare grave come il licenziamento. Le aziende sono quindi chiamate a valutazioni più articolate, in cui si tenga conto del contesto, delle modalità comunicative e della finalità originaria della conversazione.

Qualsiasi compressione di tale diritto deve essere giustificata da esigenze concrete, attuali e proporzionate, mai da generici criteri morali o da reazioni emotive dell’ambiente di lavoro.

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